Milano Arte Magazine intervista la cantante jazz Elena Andreoli

Come è nato il tuo amore per il jazz? Puoi raccontarci un aneddoto dalla tua infanzia o dai primi passi sul palco che ti ha fatto capire che questa sarebbe stata la tua strada?

Da bambina mi addormentavo ascoltando i vinili di mio padre, mentre ero nella mia cameretta, e, quando avrei dovuto già dormire, tendevo l’orecchio: di là giravano tanti dischi di classica, Beethoven, Mozart, Musorgskij, Stravinskij, Ravel, Chopin, Debussy, Rachmaninov. Sono cresciuta a pane e “Fantasia” di Disney. E poi è arrivato Gershwin. A casa dei miei zii si ascoltava il jazz! Mi sembrava di sentire una roba modernissima! E da li ho iniziato a essere famelica di tutto il jazz. Ad ascoltare musicassette fino a consumarle. Una chitarra mi ha accompagnato per molti anni. Poi ho capito che non sarei riuscita a fare bene due cose insieme. E ho scelto il canto.


Hai una formazione versatile, tra musica, teatro e doppiaggio – vincitrice persino dell’Anello d’Oro. In che modo queste esperienze influenzano il tuo approccio alla voce nel jazz, rendendola così teatrale e piena di energia?

“Teatrale” non è una parola in cui mi riconosco. Evoca qualcosa di eccessivo, sovraccarico. Sono più a mio agio se parliamo di “interpretare”, là dove si lavora di sottrazione, di sfumature. Forse la parola giusta è “cinematografica”. Che rispetto al teatro consente inquadrature strette sui dettagli. 

In ogni caso ho capito cosa intendi: per me la voce è uno strumento d’attore. Ogni parola ha un corpo, un’intenzione, un respiro. Il teatro mi ha insegnato a cercare la verità dietro ogni nota, a non cantare formalmente “bene”, ma a dire qualcosa. Il doppiaggio, invece, mi ha dato la precisione dell’intenzione. Nel jazz tutto questo diventa libertà: puoi cambiare direzione, colore, intenzione, e ogni volta la storia prende una sfumatura diversa. Perchè non dipende più solo da te, ma dal dialogo che riesci a stabilire con gli altri musicisti. Per questo, in controtendenza rispetto al mercato, i miei gruppi sono sempre più grandi. Oggi, sono richiesti i “duo” i “trio”, così costano poco. Io, invece, amo i gruppi con tanti musicisti perché mi interessa il dialogo tra strumenti diversi. E infatti sul palco di Arcimboldi saremo in 7.

Cio’ nonostante ho fatto dei bellissimi concerti in trio, per esempio un tributo a Django, che ho chiamato “The Sunny side of Django” con due chitarre manouche: Davide Parisi e Cyrano Vatel. E’ stata pura poesia.

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Il tuo nuovo album Beautiful Love è un esordio atteso e personale. Qual è il filo conduttore che lega i brani, e come hai scelto i temi di swing, blues e ragtime per questo progetto?

Ogni brano è un frammento di un racconto più grande. Del mio modo di vedere il mondo attraverso la musica. Ho scelto gli standard meno scontati, quelli che custodiscono storie da scoprire. Sono il frutto di una selezione durata anni. Avevo lasciato la musica per il teatro e per la TV, per un po’. Alla musica sono tornata senza nessun progetto. Sola con il mio ukulele a suonare e cantare brani sulla mia barca a vela. Accompagnarmi da sola mi ha reso libera di cantare quello che volevo. Solo quello che mi piaceva. E lì è venuto fuori quello che si chiama il suono unico di ogni musicista. Cantando quello che mi incuriosiva, sola, con il mio ukulele, il suono di una voce acerba è diventato pian piano il “mio” suono. In fondo, swing, blues e ragtime sono stati linguaggi di libertà, e lo sono ancora. In Beautiful Love non celebriamo il passato, lo trasportiamo nel presente per vedere come suona oggi.


Il singolo Ain’t She Sweet anticipa l’album con un tocco ironico e leggero. Cosa rappresenta per te questa reinterpretazione di un classico del 1927, e come hai voluto renderlo tuo?

Ain’t She Sweet è la prima canzone che ho imparato a suonare con l’ukulele, e per me è una dichiarazione di gioia e spensieratezza. Ritornare bambina. È un sorriso che non si prende troppo sul serio. Nella nostra versione l’abbiamo resa più ritmica, più giocosa, con un’ironia senza fronzoli che riflette bene il tono del disco: il piacere di suonare insieme, con curiosità. Ne abbiamo fatte due versioni: una, full band, che è uscita come singolo. Mentre nel disco ho inserito la versione acustica, dove siamo solo in tre: io, Paolo Tomelleri e Davide Parisi all’ukulele. 


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Paolo Tomelleri è una leggenda del jazz italiano, e la vostra collaborazione è magica. Come descriveresti il dialogo musicale tra la tua voce e il suo clarinetto sul palco?

Con Paolo c’è una sintonia profonda. E’ un amico, un maestro appassionato, fin troppo umile. (Ma, si sa, i Maestri sono così, e sono sempre più rari, in un mondo di scimmioni che si battono il petto per apparire.) Il suo clarinetto è in continuum con il suo modo di dialogare. Non gli serve parlare. Non a caso nel jazz si parla di “frasi”. Ecco lui è l’esempio principe di questa espressione: quando suona, Paolo racconta, parla. Lo ascolti 10 volte su uno stesso pezzo e ogni volta ti dice una cosa diversa. Ti sorprende, ti emoziona: è unico, è un grande Maestro. Ho sempre adorato il suono del clarinetto. Puoi immaginarti la gioia di mescolare la mia voce a quella del più grande clarinettista italiano. È come se le nostre voci si intrecciassero in una conversazione: lui dialoga con me con le note, e io rispondo con le parole. Sono molto legata alle parole, nasco attrice e autrice di testi. E in mezzo, accade qualcosa che non si può provare in anticipo — succede e basta. È un dialogo tra generazioni, ma anche tra due libertà che si riconoscono, si rispettano e si vogliono bene.


Nel sestetto per Beautiful Love, suoni con musicisti eccezionali come Stefano Pennini, Davide Parisi, Raffaele Romano e Alberto Traverso. Quale energia unica porta ognuno di loro al gruppo?

Ognuno ha una voce chiara e riconoscibile, e proprio per questo l’ensemble funziona. Stefano Pennini al pianoforte è il cuore armonico, un funambolo, un genio. Davide Parisi ha un suono di chitarra che vibra di swing, ma anche di una precisione impeccabile. Raffaele Romano al contrabbasso è la colonna vertebrale, dà quella ritmica sensuale che tiene tutto insieme. E Alberto Traverso, con la sua batteria è il motore: dinamico, leggero, raffinato. Ci siamo trovati proprio bene anche con il nostro fonico Vins Deleo. A Milano un punto di riferimento per incidere jazz.


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Tornare agli Arcimboldi dopo i sold out dell’anno scorso deve essere emozionante. Cosa ti aspetti dal pubblico milanese il 26 ottobre, e come renderete l’evento interattivo e divertente?

Gli Arcimboldi non è solo il teatro più prestigioso di Milano, diretto da persone di grande esperienza e illuminate, ma è un luogo con un’energia speciale. L’anno scorso c’era un silenzio d’ascolto incredibile, come se il pubblico respirasse con noi, ballasse con noi. Nelle riprese dei miei concerti c’è sempre un dettaglio sui piedi della gente che battono il ritmo! Quest’anno porto un progetto più consapevole, sicuramente più maturo. Adoro i miei musicisti e il pubblico che mi segue viene sempre aspettandosi di uscire un po’ più felice. È un concerto, ma anche un piccolo viaggio dentro le storie del jazz. Ho voglia di raccontarle alle persone. Di dialogare con loro come faccio con i miei musicisti. Anche solo attraverso lo sguardo.


JAZZMI è uno dei festival più vibranti d’Europa. Quale significato ha per te esibirti qui, e c’è un momento o un artista del festival che ti ispira particolarmente quest’anno?

JAZZMI è un festival che sa mescolare linguaggi, generazioni, stili.  È esattamente quello che mi interessa: un jazz vivo, in movimento. Essere parte di questa rassegna significa sentirsi dentro una comunità di artisti che guardano avanti, ognuno con la propria voce. Essere, poi, sullo stesso palco degli Arcimboldi nella stessa settimana di Diana Krall, che è una delle massime esponenti del jazz internazionale, è un onore. È bello sentire che, per qualche giorno, Milano diventa una vera capitale del jazz.


Hai condiviso il palco con maestri come Giorgio Gaslini e Bruno Martino. Quali lezioni preziose hai imparato da loro che applichi ancora oggi nelle tue performance?

Da Gaslini ho imparato che la libertà nasce dal rigore. Era un uomo capace di andare oltre ogni confine stilistico, ma con una disciplina assoluta. Da Martino, invece, ho imparato la leggerezza, quella che arriva solo quando la musica ti attraversa completamente. Entrambi mi hanno insegnato che il jazz non è una forma, ma un modo di stare al mondo: ascoltare, rischiare, restare curiosi. E questo cerco di portarlo ogni volta sul palco — quella tensione tra precisione e abbandono, tra tecnica e verità.


Guardando al futuro, dopo questo debutto live, quali sono i tuoi sogni o progetti che vorresti realizzare nel mondo del jazz? Magari un tour o una nuova collaborazione inaspettata?

Vorrei che Beautiful Love fosse l’inizio di un viaggio. Sto già scrivendo nuovi brani con Paolo Tomelleri per un secondo disco, e parallelamente sto lavorando a un progetto di inediti con il trombonista Andrea Andreoli. Ho bisogno di tempo e tranquillità per scrivere. Ma allo stesso tempo mi piacerebbe portare questo repertorio nei teatri, in una forma che unisca musica e parola — un jazz che racconta storie, come un film dal vivo. Sono incuriosita da collaborazioni con nuovi strumentisti, per esempio amerei fare qualcosa con un fisarmonicista. E poi vorrei portare la mia musica fuori dall’Italia, magari in Francia o in Spagna, dove il jazz è vissuto come un dialogo tra culture. Il mio sogno è continuare a cercare quella frontiera sottile in cui il jazz incontra la parola e diventa racconto.

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Milano Arte Magazine ringrazia Andrea Conta per la collaborazione.

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